Un concerto dei Placebo, raccontato con tutta la spavalderia e l’ingenuità di una sedicenne.
Nata e cresciuta in una famiglia in cui la musica è pane quotidiano ed essenza, mi sono ritrovata per la prima volta, a 16 anni, faccia a faccia con qualcosa di straordinario.
Per certi versi troppo giovane per carpire il senso di quello che mi stava accadendo, dato che avevo avuto pochissime occasioni di ascoltare live di quel livello, a due passi da casa.
L’emozione inizia sempre due giorni prima, perché per un’adolescente che segue i Placebo da quando ha 11 anni, 5 o 6 anni di attesa sono un tempo infinito (ora ne ho 20 e non è cambiato molto da questo punto di vista, ma la frenesia del primo live è sempre qualcosa che ti carica di adrenalina). Due giorni di preparazioni, di alienazione nei brani, ansia di non riuscire a vedere o ascoltare bene il concerto, di non essere abbastanza vicina al palco.
Arrivo lì, ascolto gli altri gruppi, a stento mi rendo conto che ci siamo quasi. Momento di pausa, mi siedo di spalle alla transenna, ancora in attesa. Tutti parlottano e bevono, io sono lì, sorrido senza capire a chi. Sono stanca, ma qualcosa si agita dentro di me. Silenzio. Si accendono le luci. Mi alzo di scatto e mi aggrappo alla transenna. Il tumulto che avevo nell’animo diventa reale e inizia il tremore, inizia l’affanno. Tre sagome si fanno strada tra la luce e non ho neppure il tempo di capire che si tratta di Brian, Stefan e Steve che le chitarre iniziano a stridere, nella tipica “coda” iniziale e finale dei primi due album dei Placebo. Il tutto – circa 1 ora e mezzo – sembra durare un attimo.
Come home, Every You Every me, Nancy boy (con il bacio fra Brian e Stefan), Bruise Pristine, e poi lei, Without you I’m nothing, le lacrime iniziano copiose a scendere e la voce mi si blocca in gola, non conosco più una parola di quel brano che tante volte ho cantato nell’intimità della mia camera. Un buco nel petto, come una voragine riporta a galla tutte le passioni della mia età e la voce di Molko penetra come una lama, le sofferenze che conosco sono tutte a portata di mano.
Il live prosegue, stupendo, energico e meglio di qualsiasi disco mai ascoltato. I Placebo vanno via e penso.. no! è già finito! Mi preparo alla sofferenza che seguirà il distacco e invece, solo pochi secondi dopo, parte il riff iniziale di Pure Morning e il pubblico esplode, nuovamente in delirio, come se tutto ricominciasse da capo. La coda iniziale è lunghissima, le chitarre vengono sostituite per l’ultima volta e Brian grida qualcosa in italiano (chi se ne frega di cosa dice, vogliamo che ricominci a cantare!!) e il brano parte, fantastico e pulsante come lo ricordavo, ma molto più vivo.
Pulisco con le dita i residui di matita colata con le lacrime, per sistemarmi prima del gran finale. Per rendermi presentabile per quel capolavoro. Salto, canto, mi carico.
Pure morning volge al termine, Brian – che ci ha preso gusto – saluta in italiano, gira i tacchi e se ne va seguito dai fedeli complici. Non sono più triste, forse ne vorrei ancora, ma in fondo sono riempita di mille emozioni che porterò con me fino al prossimo concerto. Ciao ragazzi, ci vediamo nel 2003.
Corinna Urbani

Attrice, doppiatrice e regista teatrale, con esperienza pluriennale nell’insegnamento delle principali tecniche di recitazione, respirazione e dizione, controllo del corpo e mimica nello spazio scenico